Damasa è il nome che vorrei dare a mia figlia.
Ho quasi quarant’anni.
Forse è il nome che dovrei darle.

Anna Maria Ortese diceva che le antenne
delle televisioni sui tetti delle case
fuori dalla sua finestra
assomigliavano ad alberi di navi.
Per questo le sembrava di non aver mai lasciato Napoli.

C’era una canzone di un autore che non ricordo
Parla di Piero Ciampi.
“Maledetti amici” credo si chiami.
- Per voi mi sono perso anche una moglie – dice.

Ho avuto degli amici.
Non ne è rimasto granché.
A volte faccio di nuovo amicizia.
E’ una cosa in cui continuo a credere.

Un amico un giorno disse
che l’Austria avrebbe perso
il suo miglior poeta durante una festa nazionale.
A capodanno del 1994 si suicidò.

Guardo questa mostra. Ha la stessa impudicizia dello specchio del mio bagno. Si espone come un non-finito di per sé, con oggetti sospesi dentro e fuori la cinghia stretta della realtà. Ma qui a Napoli della realtà non interessa a nessuno. E allora tutto si rilassa. Gli oggetti riposano. Trovano tregua temporanea sulla cenere. I pezzi, di volto, di corpo, di carne. I nomi, le facce. Le cose trovate, le cose perse. Gli occhiali dimenticati sulla testa. Ci sono persone che scantonano tra queste mura, che non ho mai incontrato, e che pure sono lì, sedute nell’ombra che faccio. Che mi aspettano. Mi cristallizzano il pane prima che lo porti alla bocca. Mi accendono le stelle del lampadario della cucina.

In questa mostra sono sfacciatamente esposti gli appunti presi in una pausa di respiro. Con l’oro di Napoli. Con i frantumi dei compagni di strada che sono il lastricato stesso della strada.

Questa mostra è un imbroglio di fili sospesi, è lo ieri prima del domani. E’ una riflessione sulla pittura, sul suo decollo e la sua ricaduta. Ci sono ancora righe e striscioline di un romanzo che qualcuno continua a infilarmi nelle tasche, Alessandro, Antonio, Lucrezia, Anna Maria, Elvira. Alla fine non conta niente altro. Questo perimetro umano fatto di lati che stanno tra i volumi di esistenze. Questo filo sottile. La delicatezza dell’anima mia. E la sua pesantezza. Il rammarico di non poter bere un bicchiere d’acqua con qualcuno.

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