Sono molteplici le determinazioni che animano la ricerca di William Kentridge. Poco incline a lasciarsi inquadrare in rigidi confni disciplinari, resi peraltro privi di senso da una pratica artistica caleidoscopica, Kentridge presenta in questa mostra un consistente e variegato corpus di opere realizzato tra il 2012 e il 2014.
Sia nei tre “fip book” flm, uno dei quali, NO, IT IS, costituito da una triplice proiezione, che nelle incisioni su linoleum e nei disegni realizzati utilizzando il segno fuido, generoso ed espansivo dell’inchiostro indiano, ricavato dal nero carbone, Kentridge agisce su pagine di dizionari enciclopedici (l’Oxford Dictionary, il Technology Dictionary, Britannica World Language, ad esempio): un supporto singolare che non è una superfcie neutra ma già un palinsesto da cui scaturisce la sua rilettura – “second-hand reading”– quando sulle sequenze ordinate dei lemmi, si attiva lo scorrere e il rincorrersi di immagini e parole.
Così, mentre reinventa una delle più antiche forme di animazione, Kentridge costruisce uno spazio da cui osservare le contraddizioni del reale, la sua discontinuità. DISINTER AND RECONFIGURE / SHOWING AND HIDING / SHOWING AND VANISHING / sono, tra le tante, le azioni che spuntano dagli enormi e rigogliosi alberi. Molti degli oggetti si stagliano rappresentati sulle pagine (un megafono, una macchina da scrivere, una moka...) trovano la loro eco materiale [“a mistranslation” ] in Rebus del 2013, un gruppo di 9 sculture in bronzo, allineate su un asse di legno come parole su un rigo. Ma se il rebus è letteralmente un esprimersi “con le cose”, per Kentridge le cose stesse – a sottolineare ambiguità e incertezze dei dati di realtà – non sono elementi il cui signifcato è dato e immutabile, ma si trasformano in nuovi oggetti al mutare della prospettiva da cui le si osserva.
L’opera di Kentridge, allora, ci svela l’incerta “grammatica del mondo” laddove ci ricorda che ambire ad una visione univoca e totale è solo un’illusione.