La performance VB62 nasce da una riflessione dell’artista Vanessa Beecroft sulla tradizione scultorea italiana e in particolare siciliana, dal Quattrocento al Barocco, da Francesco Laurana (Vrana 1430 – Avignone 1502) a Giacomo Serpotta (1656 – 1732, Palermo). Il primo trascorse a Palermo 5 anni, dal 1466 al 1471, lasciando importanti opere ma soprattutto il “busto di gentildonna”, detto di Eleonora d’Aragona, conservato a Palazzo Abatellis. Il secondo, definito da Donald Garstang “il principale artista dello stucco in Europa” e da Giulio Carlo Argan “uno dei massimi scultori del Settecento”, realizzò un’autentica rivoluzione stilistica e culturale, rinnovando la tecnica tradizionalmente povera dello stucco in arte ricercata e alla moda.

Nell’abside della chiesa di S. Maria dello Spasimo a Palermo, Vanessa Beecroft dispone a raggiera, su basi bianche, un gruppo di una ventina di donne insieme a 13 calchi in gesso di corpi femminili nudi che vogliono personificare l’ “idea di nobiltà rinascimentale austera e dignitosa”.

I calchi in gesso lisciati fino a sembrare marmo ricordano la scultura funeraria e sono stati realizzati a Racalmuto in collaborazione con maestranze locali. I corpi delle donne interamente ricoperti di bianco, con i capelli raccolti e anch’essi dipinti, si confondono con le sculture in gesso, idea che proviene dalla visione dell’opera di Carmelo Bene Hommelette for Hamlet (1987).

Nel corso della performance, le donne, inizialmente immobili, cominciano a compiere movimenti minimi e in assoluto silenzio, come risvegliandosi lentamente. Restano sedute, ferme, oppure si alzano e si ridistribuiscono nello spazio seguendo delle semplici regole di “comportamento” dettate dall’artista in tutte le sue performance: “non parlare, non muoverti in tempo reale, sii distante, non guardare le persone negli occhi, aspetta fino alla fine dell’evento, coordina i tuoi movimenti con il resto del gruppo. Sei un’immagine…”. Posano in modo naturale e non comunicano con nessuno e il loro sguardo è perso nel vuoto e distante, come se appartenessero ad un’altra realtà. All’inizio il gruppo si presenta omogeneo, poi le donne rompono la composizione, muovendosi perdono a tratti il colore, diventando carnali, mentre le sculture rimangono elementi rigidi e inanimati.

“Sono le statue che si svegliano dal sonno della morte – dice l’artista – per rianimarsi, come è scritto nei versi della Genesi, attraverso il respiro della vita”.

In matematica, la bottiglia di Klein (chiamata anche ‘pelle di Klein’) è una superficie non orientabile ovvero un’area per la quale non c’è distinzione tra “interno” ed “esterno”. La bottiglia di Klein è stata descritta per la prima volta nel 1882 dal matematico tedesco Felix Klein.

L’opera di Gary Hill, “Klein Bottle with the Image of Its Own Making (after Robert Morris)”, è in dialogo con “Box with the Sound of Its Own Making” di Robert Morris.

Se la scatola di legno di Morris contiene una registrazione sonora che documenta la realizzazione del suo lavoro dall’inizio alla fine – Il martellare, il segare e il levigare lasciano il posto a silenzi prolungati – nel caso di Gary Hill si tratta di una Klein Bottle con il video della sua realizzazione proiettato nella bottiglia.

Nel primo Rinascimento, il palazzo aristocratico fu ridisegnato per permettere una divisione tra l’ala pubblica e quella privata. Un salotto pubblico, accessibile ai visitatori, era posto vicino all’entrata, separato da una serie di stanze private situate sul retro. Lo “studiolo” era il più privato di tutti gli spazi; oltre a essere usato come una biblioteca, una sala di lettura, una sala di musica e un gabinetto di curiosità – il sito di raccolta di naturalia, artificialia, memorabilia – aveva una funzione più specifica: lo studiolo era progettato come una sorta di laboratorio cognitivo, un “ambiente totale” dedicato al miglioramento della memoria e dell’immaginazione. I diversi elementi dello studiolo erano tutti subordinati a questo obiettivo; ciascuno era concepito come supporto allo sviluppo cognitivo e intellettuale del Signore rinascimentale. Si presumeva che tutti gli elementi coesistenti nello studiolo fossero legati l’uno all’altro da una teoria neoplatonica dell’anima umana che assegnava a ciascuno il suo ruolo speciale; ogni parte dello studiolo era quindi dedicata a migliorare un aspetto specifico delle capacità conoscitive e spirituali della mente e dell’anima in senso lato.

Lo scopo del progetto di Clegg & Guttmann è quello di rivalutare lo spazio dello studiolo e suggerire modi per trasformarlo in chiave contemporanea, combinando una varietà di funzioni. L’opera di Clegg & Guttmann è stata concepita come discendente diretta dello studiolo rinascimentale e come tributo ad esso, con l’auspicio che possa portare nel presente quella preoccupazione originale per la memoria, l’immaginazione e l’anima umana. Alla base di questo omaggio e rivisitazione vi è l’idea che l’opera d’arte sia l’elemento imprescindibile di uno sviluppo umano sano basato sull’apprendimento, sulla contemplazione, sul nutrimento dell’anima.

Nella loro più recente produzione, Ilya&Emilia Kabakov hanno deciso di rivolgere sempre più il loro interesse verso la grande storia dell’arte e i suoi capolavori. Gli artisti infatti – alimentati dalla profonda convinzione che la storia dell’arte e lo sviluppo umano siano intensamente legati e dipendenti l’una dall’altra – instaurano nelle loro opere un dialogo con i grandi maestri dell’arte, animati dall’intento di far rivivere le loro opere e così facendo mantenerle vive non solo nella memoria dell’artista ma anche e soprattutto nella memoria degli spettatori.

Questa ricerca è evidente nelle due opere “At the Studio” e “He Never Come Back”. In “At the Studio” Kabakov rende il suo tributo a due celebri capolavori: “Las Meninas” di Diego Velázquez e “L’Atelier du peintre” di Gustave Courbet.

Come sottolineato dall’artista stesso, il punto in comune tra “At the Studio” e “Las Meninas” è la presenza di due personaggi principali: una bambina e l’artista al lavoro. Nel quadro di Velázquez, tuttavia, la bambina è estranea sia al mondo dello studio che all’artista. In “At the Studio”, invece, è una legittima partecipante della vita dell’atelier. È occupata a lavorare e la differenza di età tra i due pittori è il soggetto principale dell’opera; uno è all’inizio del suo viaggio, l’altro alla fine del suo.

Dall’altra parte, l’assonanza con “L’Atelier du peintre” di Courbet emerge nella scelta di rappresentare l’artista sullo sfondo del quadro che lui stesso ha dipinto.

La scelta di un tipo di pittura realista giustifica l’ingresso dell’artista nell’opera di cui diventa parte egli stesso. In questo senso, entrambe i dipinti celano la stessa precisa metafora: l’artista, per mezzo del suo lavoro, si trasforma in un personaggio del mondo che lui stesso ha creato e immaginato.

In “He Never Came Back”, Kabakov fonde frammenti visivi dell’immaginario sovietico con quelli di dipinti barocchi del XVII secolo.

In una parte del quadro, quella a destra, il soggetto appartiene al barocco e ricorda nei toni e nelle ambientazioni un’opera come “La Famiglia del contadino” di Louis Le Nain; l’altra parte, a sinistra, appartiene invece all’immaginario sovietico e mostra l’interno di una fabbrica della metà del XX secolo.

A creare un orizzonte comune è la catena di volti che attraversa la tela; tuttavia, se da un lato questi visi creano un legame tra le due parti, dall’altro ne accentuano le differenze, lasciando emergere i cambiamenti della storia e del tempo.

In quest’opera, però, come nota l’artista stesso, sono

in realtà tre i soggetti raffigurati, collegati tra loro da fili invisibili.

Oltre infatti, al tributo barocco e sovietico si possono vedere, fissati sulla superficie della tela, un paio di scarpe e una staccionata di legno verde. In apparenza incoerenti con il resto dell’opera, in verità, la loro presenza si giustifica alla luce del titolo “He Never Come Back” (Non è mai tornato).

Come spiega l’artista: qualcuno, a cui appartengono quelle scarpe, sta facendo due passi, per andarsene per sempre, per scomparire da questo mondo, indipendentemente dalla sua appartenenza al mondo passato del barocco o a quello recente sovietico. Non gli piace nessuno dei due. Per lui, sono circondati dal recinto, che è la ragione per cui vuole sempre scappare.

“A Dora D.”, è stato realizzato presso l’ex banco dei pegni di Palermo (Palazzo Branciforte). Nella fotografia, il corpo dell’artista dialoga con la struttura a griglia che connota la spontanea architettura lignea del magazzino, in cui linee verticali e orizzontali si intersecano su più livelli come le sbarre di una gabbia. L’opera è un omaggio a Dora Diamant, la donna che si prese cura di Franz Kafka nella fase terminale della sua vita quando l’autore scrisse il suo ultimo racconto intitolato “Ein Hungerkünstler” (1922), il cui protagonista si esibiva pubblicamente in una gabbia sorvegliata da tre guardiani, trovandosi nella paradossale situazione di guadagnarsi il pane digiunando.

Nel suo ultimo corpo di opere, concepito per la sua personale “Weightless” tenutasi alla Galleria Lia Rumma di Napoli nel 2020, Luca Monterastelli “vuole esaminare come funziona la memoria”, dice, “ed esplorare le origini della narrazione e la sua inevitabile corruzione” in forte relazione alla città di Napoli. Come afferma l’artista: “Dopo tutto, Napoli sembra essere il luogo perfetto per questo: è una città piena di fantasmi e i fantasmi sono i versi della storia. E, in particolare, questo è il modo in cui sono scritti i versi di questa storia”.

In “Oh Ma’ Belle, Oh My Beau, Why Can’t He Have Three Good Things in a Row?”(2020) – opera in terracotta bianca disposta su cavalletto da scultore – l’artista dialoga con la città e rende omaggio alla sua storia antica legata in particolare ai siti archeologici di Ercolano e Pompei, tra i più famosi al mondo.

In particolare, in questo gruppo scultoreo l’artista rende il suo omaggio ad uno specifico genere scultoreo, quello del lupanare, un genere erotico a sfondo sessuale, i cui reperti più importanti sono oggi conservati nel Gabinetto Segreto del Museo Archeologico Nazionale di Napoli.

Reinhard Mucha ha deciso di accompagnare la presentazione della sua installazione “Island of the Blessed (2016)” con estratti selezionati di Salvatore Settis, “Se Venezia Muore” (2014).

L’opera di Mucha riflette su come Milano si sia recentemente investita del ruolo di icona della modernità, tutta grattacieli e cortine – “proprio come un contadino cafone che indossa i suoi migliori abiti della domenica nelle commedie del passato”, scrive Settis, comportando la definizione di “due modelli urbani completamente in contrasto senza alcuna correlazione o senso di armonia”.

Mucha gioca con questo contesto e provocatoriamente ci mostra un tetto di tegole antiche meticolosamente steso a terra su un letto di macerie da demolizione. Il senso del dramma e il ruolo chiave della memoria, le sue profonde riflessioni e la sua critica alla realtà urbana sono tutte coralmente espresse in questa installazione da camera profana.

Come trattare i resti del nostro recente passato, è un’eterna ossessione per Mucha, il cui vocabolario non a caso è formato da materiali da costruzione trovati.

Nella sua idea, questi elementi residuali dovrebbero svolgere il doppio ruolo di ricordi ossessionanti e di testimonianze di manufatti della storia umana.

Ugo Mulas scrive: “Le fotografie di Duchamp vorrebbero essere qualcosa di più di una serie di ritratti più o meno riusciti, sono anzi il tentativo di rendere visivamente l’atteggiamento mentale di Duchamp rispetto alla propria opera, atteggiamento che si concretizzò in anni di silenzio, in un rifiuto del fare che é un modo nuovo di fare, di continuare un discorso. (…) Posare era l’atteggiamento più vicino al non fare, perché qualsiasi altra cosa Duchamp avesse fatto sarebbe stato qualcosa in più e qualcosa di troppo. I ritratti in casa o al museo non mi bastavano: l’ho voluto riprendere mentre camminava, perché mi sembra che il camminare sia l’atteggiamento del vivere più elementare, e fotograficamente più significativo, un fare sganciato dal produrre, l’atteggiamento più evidente del vivere e basta.  Così ci sono alcune foto di Duchamp che cammina da casa sua a Washington Square.

Poi ci sono delle foto fatte in casa, (…) con queste ho cercato di portarlo ad assumere degli atteggiamenti rivelatori del non fare (…) Infine siamo andati al Modern Art Museum, e qui fu emozionante fotografarlo tra le sue opere di una cinquantina d’anni prima, mentre le guardava come se non gli appartenessero, farlo posare con le spalle appoggiate al muro, opera d’arte lui stesso vivo fra le sue vecchie cose.

(Da, “La Fotografia”, Fotografie e testi Ugo Mulas, Giulio Einaudi Editore, Torino 1973).

La serie delle ‘Verifiche’, ad un certo momento, l’ho considerata finita, chiusa, e ho deciso di chiuderla là dove aveva avuto inizio. Ho fatto, in un certo senso, come un incisore che biffa la lastra a tiratura ultimata: il vetro, che ha un’importanza decisiva per la mia composizione, dà infatti precise caratteristiche fisiche e visive al pezzo, e, una volta spezzato, è la stessa operazione a non poter essere ripetibile. Il risultato del mio gesto è stata un’immagine nuova, diversa rispetto a quella di partenza. E questa rottura radicale con ciò che precede mi ha portato a riflettere sul significato intrinseco dell’”Omaggio a Niepce”, mi ha portato a pensare a Duchamp; e non solo per la circostanza estrinseca che nella produzione di Duchamp c’è un’opera che è un grande vetro spezzato. Mi sono reso conto, cioè, dell’influenza, inconscia forse, di un atteggiamento di Duchamp, del suo non fare, che ha tanto significato nell’arte più recente, e senza del quale questa parte del mio lavoro non sarebbe nata. Perciò la fotografia è dedicata alla sua presenza.

(Da, “La Fotografia” , Fotografie e testi Ugo Mulas , Giulio Einaudi Editore, Torino 1973).